messaggio della Domenica

resiste, persiste, in questa compresenza

d’amore delle voci –

ad ogni chiacchierata, battuta, motteggio,

conversazione, assieme a te, tra noi e tutti voi

(un voi che non ci basta, ché ci ricomprendete

tutti dentro un noi, un noi d’ennesimo abbraccio),

vive il continuo dell’apertura oltre le croci,

la fiumara in piena, del giardino,

verzura, assoluto paesaggio

del nostro comune discorso ininterrotto…


Carteggio XIII : scommessa nodo passaggio compresenza, nella poesia (di Enrico De Lea)

Carteggi Letterari - critica e dintorni

P_20140308_171957Ripropongo, con qualche “correzione di tiro” e con qualche decisiva modifica,  alcune mie riflessioni, apparse in una precedente nota sul mio blog.


La creazione poetica rappresenta sicuramente la parte più viva, vivace, ricca di presenze, fertile di intuizioni, della letteratura contemporanea, e non solo in Italia.  Noi in particolare soffriamo, oltre che della perdita di nomi come Raboni, Luzi, Sanguineti, Zanzotto, Giudici e, in ogni caso, sia dal punto di vista simbolico che materiale,  della cancellazione del poeta come figura pubblica, del suo ruolo “sociale” (cancellazione “consacrata”, ab origine,  dall’assassinio di Pasolini),  altresì, del sempre maggiore peso –  proprio nel senso mercantile, come i “pesi” delle vecchie stadere o bilance – del sistema dei media, che ha scelto “senza scegliere”, in qualche modo ratificando  il linguaggio del “cantautore” come unico linguaggio “poetico” ammissibile, linguaggio piano, comunicativo, che non pone problemi, che, in fondo, rassicura, nelle scelte estetiche, formali e…

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Maria Grazia Insinga – Inediti

[Cædere]
I
Oh! L’uso improprio che si fa della propria vita – deve
essere la mano che prende fuoco o il cesello che
sbalza e sbalza da pareti di gesso – ondina
così impropriamente foggiata secondo l’ufficio che
mai avrei dovuto compiere: il salto, mio caro Desfontaines (1) !

II
Oh! La cura dei particolari – il rallenty – ciottolo
scagliato in acqua dall’acqua ritorna sfugge a
occhio che non vede salto se m’infrangi
dove silenzio frange cerchio nel cerchio o
curva d’alberi in memoria di vento. E cedo.

III
Scogliera erosa non arretra, manca alla gioia il diritto e in sua
assenza maestosa il male aumenta ma diminuisce la resa
elegante nel mio granito di Cornovaglia (2) circondata da maniche di burrasca
pare anneghi il faro invece parte rosa che ignori
affiora e rovescia me bambina e ancora cade. Cade.

IV
Sorelle pallide in numero di sette sparlano degradando aspre a
picco su questa scrittura postuma di me che volevo parlarti
prima della morte – spiaggiata o morta falesia ho scritto per poterti
parlare prima, poi per amore di una porta. Ora, se osassi
visitarmi quando chiudo gli occhi sentiresti cantare prima della vita.

(5/5/6/6)

(1) Pierre-François Desfontaines (1685-1745) critico letterario e traduttore francese inventò il termine ‘suicidio’ e scrisse l’ode Sull’uso improprio che si fa della propria vita.
(2) Presso le bianche scogliere di Seven Sisters in Inghilterra – uno dei luoghi prediletti dagli aspiranti suicidi – si trova il faro di Beachy Head.

__________________

Tu, musica: acqua alla nostra fontana,
raggio che cade.

Rainer Maria Rilke

[Prima lezione di Luce]

I
Le sette sorelle (3) parlanti spossessano d’innocenza
le sette sorelle più non guardano dall’alto se dall’alto vedi.
Effusa dal mare tra sciara del fuoco e vento
imparare è solo perdita, perdita di bellezza.

II
Memento anima! Innocenza sei e tornerai.
Nel giardino liquido il giglio bianco protegge
il fuoco dai margini taglienti d’ossidiana
e il sartiame rizza gli alberi nella tempesta di vetro.

III
Ciascuno abbia pietà della sorte.
Niente, non c’è più niente. L’aria ha preso
del niente la forma. E il resto solca un mondo
spinto per la strozzatura d’una bottiglia.
IV
Non posso rifare lo stesso percorso.
Corpi raggiano e rimango solo per vederli
non smettere di cadere.
Cædere!

V
Non sorprenda morire. Precedono sontuose corolle
mentre impreparata continui valigie
ripieghi corredi di luce.
Tu, anima: raggio che cade!

(3) L’altro nome delle Isole Eolie.

________________

Un mare verdastro sotto e dorato sopra.
Un mare di giardini d’aranciare.

Stefano D’Arrigo

Al risveglio eravamo mostri in cima al mondo
affinché da lì fossimo scagliati come pietre
– avvolgi il sasso nella carta cesserà di battere
dappertutto assorella forbici a carta e carne
s’impallidirà bellezza – e al risveglio eravamo morti e non
è bastato lanciare quattro modanature
imperìte sul marmo rosso imprestato ai dirupi a
fianco delle cave raccogliendo il quinto sasso non
recuperavo in aria gli altri piccoli marmi di
perfezione lingua di balena senza linguaggio da
consumare e non credo più o meno di quanto io non
creda rido di me e non riesco a credere come
io abbia potuto credere più o meno di quanto
io non avrei mai dovuto credere
hai dimenticato Orcaferone morte
immortale che il sasso batte dappertutto e io
sono un mare di giardini d’aranciare.

(5)

____________

Sogno conchifero
– archetipo di natura
periferia scollata dalle terre
mare che ritrovo al centro
d’una fisiognomica del dolore –
se tutto è identico incanto
– oro alchemico, letame e Dio –
perchè nell’enumerare
il corpo mondo duole ancora?
Sono, io – tritono madreperlaceo
di questa metafisica conca marina –
unica differenza, condanna
di una misura scordata
dal la universale?

____________

[Pregiudizi]

Riascolto il passo
il bene che ricuce al male
– rimane immutato? –

Lascia che il lupo cosparga
il capo d’innocenza. Anche le tre querce
indossano il medesimo copricapo
sulla cima del mondo e cade
– non da un lato non dall’altro –
ma sempre verso l’alto.

E i miei occhi ora vedono che nessuno vide
l’identità di forme, il medievale incanto.
Se il mondo è fatto cosa ancora dovrei fare?

Prendetene ospiti invisibili
ché tanto io vivo davvero nel loto
tra sillaba e sillaba e sillaba
– non prima non tardi – e spesso vivo
solo dopo aver scritto che vivevo.

______________

[Pendolari di lungo raggio]

Scriveremo in codice
della comprensione del mondo
invieremo elenchi d’amore al corpo
per dimenticare le differenze.

Moriremo per sempre
– sottovoce
per non dar fastidio al gelo –
e per vedere
non dovremo più toccare la vita
– come quel temporale
che qui non arriva –
o non moriremo mai.

***

Notizia:
Maria Grazia Insinga, nasce in Sicilia nel 1970, dove vive ed opera.
Riportiamo la sua vivace e densa nota autobiografica:”Faccio capriole polverose per vedermi da fuori, scrivere di me ma debordo come da una rilegatura che non tiene. Dopo la laurea con lode in Lettere, gli studi in Conservatorio e in Accademia, l’attività concertistica e di perfezionamento e l’insegnamento nelle scuole secondarie, giungo quattro anni fa in anticipo all’ora del tè in Inghilterra. Salpo e metto vela – parafrasando Sereni – sull’onda del 20 di agosto alla volta della mia amata isola. Ora mi disincontro qui a centellinare trifogli a barili ché due mondi sono troppi e la Sicilia non è ancora esausta d’essere se stessa. Non ricordo d’esser morta e sento due notti in luogo d’una. Le mie poesie sono apparse online su riviste specializzate (Cartiglio d’ombra, La Bella Poesia, Larosainpiu, Words Social Forum). Insegno Pianoforte presso una Scuola Civica di Musica succursale del Conservatorio “V. Bellini” di Palermo e mi occupo di ricerca musicologica – ho censito, trascritto e analizzato i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo – di critica letteraria e faccio parte della giuria del Premio Internazionale di Poesia Don Luigi Di Liegro. E poi scrivo, scrivo, scrivo… Spezzo in enjambement di fiato e senso il verso come per riporlo in uno spazio millimetrato grafico e mentale, una partitura senza altezze. La poesia è iniziazione al suono per il tramite corporeo della parola; mappa svanita d’agogica e dinamica dove quel che non dico l’ho detto prima di non dire“.


Gianluca D’Andrea – Inediti

Sul viso queste linee perfette
che la luce bagna appena
rendendo

linee dall’alto che sfaldano la luce
ricadendo sulla bambina che dorme,
sui lineamenti dritti, dolci, verticali

il viso della bambina è diverso
cambia come il giorno
come ogni giorno cambia
per assomigliare a se stessa, diversa,
al diverso che cederà nel nulla
che già l’accompagna, rendendo
possibile la sua presenza attuale,
eterna.

Sul viso quelle linee perfette
ogni giorno perfette nella loro incoerenza
col perfetto, che è sempre visione.

La mia visione è qualcosa che vuole arrendersi
e non celebrare.
Ancora, ogni tanto, combatto con la mia resa,
la lingua diventa l’eco di un campo,
una lancia sospesa nel lancio,
non cade, continua a saltare
da un obiettivo a un altro,
la mia resa non ha obiettivi,
non sa definirsi, si bagna appena
rendendo

***

ASPETTAVO LA STORIA DI UN QUADRO MILLENARIO

Vedevo lo spettro nell’immagine
lenta, che rallentava gradualmente
fino a bloccarsi; per un istante
le figure si muovono appena:
case sullo sfondo, dentro un parco
bambini e famiglie, madri per lo più,
compiono le loro azioni necessarie.
I colori vividi di un pomeriggio di aprile,
caldo – dentro il quadro mia figlia e mia moglie
nel loro angolo, sedute sulla ghiaia.
Aspetto ancora un po’ prima di entrare,
ho il tempo di sperare che qualcuno
colga da un altro spiraglio il quadro,
che il tempo senza tempo sia ricordato
in molti modi, senza nostalgia,
senza la mia stessa speranza,
nell’oblio di un ricordo che non può essere ricordato,
nella compassione lontana
di chi, alla deriva, non ne sa parlare.

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viaGianluca D'Andrea – Inediti.


“Volti dell’acqua” di Anila Resuli

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Con “Volti dell’acqua” (Smasher ed. , 2012) Anila Resuli ha vinto il Premio Letterario Ulteriora Mirari – II Edizione – 2012.
Propongo alcuni testi dalla silloge/poemetto, cui nel volume sono dedicate le note di Paolo Fichera e di Alessandra Pigliaru.
***
con una sola bocca, pelle resa
morbida d’acqua, bambina, una piega
singola: dietro, misto ai corpi gravidi,
occhi, tolta aria dentro la pupilla
breve – mi parli nel colore flesso
a schiuma chiara, dove reca nascita
la tua parola, detta solo prima
di partire. non resti più mio padre:
togli la parte che ti riconosco,
tingi l’albume di scuro e non vedo
più trascinare l’acqua, più non vedo
un corpo denso dov’era aggrapparsi
un gioco a mosca cieca, un rendere alto,
chiodo su chiodo, parete caduta
come memoria. devi ricordare
perché ti dimentichi i volti, pianti
che nego ai sogni, quand’è poi mattina.

***

Vlorë (Valona, Albania), 1997,
15 marzo, ore 13:30.

Verso il porto.
questa terra marcisce i nomi vecchi
dei padri, accoglie figli morti e sorti
nei lividi; si presta alla tua guerra,
alla mia, già alle vene dove scorre
denso nel sangue il male. si riversa
nella radice, come linfa scura
che attesta come il buio sa tornare.

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ELISABETTA MALTESE

Elisabetta Maltese nasce a Roma, dove si sta laureando in Medicina e Chirurgia.
Di origini siciliane e liguri, le sue radici sono la musica e la scrittura che l’accompagnano da sempre.
Con la prosa ha vinto diversi concorsi ed è stata pubblicata su riviste letterarie, antologie e blog del settore.
Per i tipi de La Vita Felice ed. ha pubblicato la raccolta “Per tre lune” (2012).

***
endecasillabi

Io scrivo per legittima difesa
sono in piazza e lo striscione è di rosso
rabbia per chi non può persino inchiostro
il suo diritto e il mio dovere urgente
grido a rigo di voce sulla carta
di donne figli uomini e di animali
fatti minimi storie da sfatare
che non mi basta il dire o ragionare
è troppo poco – fa vergogna – e allora
conto le mie sillabe come note
di un notturno ne seguo l’incombenza
il suo eseguirlo adagio come posso
restituisco alla mia fortuna il volto
in ombra a rendere più sopportabile
del giorno il piccolo da trasformare.

***
carta vince pietra

C’è una misura sottile uno spazio
fra le parole quasi un punto e virgola
volubile come nuvola a marzo
incerto come respiro di donna
in resa o amore. È distanza difficile
da misurare e a guardarla il sorriso
si finge sasso bianco e scintillio
di sguardo, confuso. Eppure
chiude il cerchio delle dita intrecciate
prima del dopo libero di andare.
E si rinasce si rinasce sempre
ché carta vince pietra lo sappiamo
da bambine.

***

i figli si baciavano di notte

E per quanto difficile sia stato
fuggire dal cortile è stato facile:
l’assenza delle radici mia alleata
e il sole, ché i figli non si baciano
di notte – solamente. Adesso che
oltre la corteccia mi conto i giri
e i nodi, scopro che siamo invecchiati
tutti tranne i divani, delicati
alla capriola adatti alla stazione
eretta. Curva, rivolgo le braccia
altrove dove non sia solo terra
e il freddo è la stagione della lana.
Ma non dimentico.

***
nomi di circostanza

Non è stata la morte a spaventarmi.
L‘ho vista mentre ti stringevo, caldo
di sangue interrotto, la pupilla distante
– no, non mi fa paura.
Cancellare tutte le tue impronte
i vestiti, la tazza del mattino
è tutta un’altra cosa.
Se proprio dovete starmi in casa
lasciatemi il riparo da parole
di circostanza mettete su il caffè
e non chiamate amore
questo lasciarti andare.

***
una sopra l’altra

Le parole sono andate. Da tempo
si erano incamminate scordando
alcune lettere in gola, impigliate.
L’andarsene non prevede ritorno
– nel silenzio, riposo
pietre davanti alla porta di casa:
se torneranno saranno di sasso.

***
trasloco

Misuro
il dolore in ascesa a settentrione:
«Ora arriverà la fine» mi dico
mentre gioco di anticipo scrivendo
sul citofono il mio nome e cognome.

***
limoni

Non mi resta che andare.
Prima devo avvicinare le costole
fiocando ogni battito da sipario
(ultimo) sguardo
e intrecciata a una biscroma sarò
nota. Se torno sarà per posare
limoni gialli sul tavolo.


Nel soffio della città

Nel soffio della città  

***
“La città mi ha insegnato infinite paure /  una folla una strada mi han fatto tremare / un pensiero talvolta – spiato su un viso”.  Citare Pavese, come facevo un tempo,  credo fosse assolutamente improprio,  circa la mia esperienza della città, di una città in particolare. Eppure ci fu un tempo in cui credevo che quei versi rispecchiassero gli anni del mio arrivo.
L’avevo immaginata, dall’alto del Bastione del santo anacoreta (la piazza principale del paese dell’infanzia), come lo specchio luminoso dello Stretto, una Cariddi pacificata e quieta, illuminata da una vivacità gaudente e gentile. In effetti la città, la sua gente, tutto appariva confermare tale mia aspettativa;  eppure, i versi di Pavese imponevano un lato d’ombra alla luce in cui vivevamo,  o ne sorgevano irrimediabilmente; o, ancora, più verosimilmente, con quel “la città mi ha insegnato” ponevano al centro del mio sguardo la città e quanto essa avesse da dirmi. La città aveva tanto da dire a ciascuno di noi,  e la sua essenza vera era nel ciuscio che vi circolava, non in una comune brezza, ma in un continuo soffio, da organismo dotato di respiro vitale, dai due mari, dalle due terre, dalle colline e dalle erte, dai valloni e dai dirupi, dalle armacìe e dai sentieri, un soffio che la pervadeva tra le vie squadrate e larghe, figlie del lontano sisma, e che la  animava rinfrescando o sferzando i volti secondo la stagione.
L’avevo intravista, la città, superato il capo di Alì, per la prima volta dall’alto del camion OM con cui traslocavamo e non dal fondo della berlina di mio padre; sullo sfondo del paesaggio – ora aperto al mondo, ora ristretto ad abbraccio –  tutto lasciava immaginare che ci fosse un ulteriore paesaggio aperto alla visione; in effetti, volevo sempre vederci dell’altro, in un luogo, oltre il luogo.
Una volta ambientatomi, la città e il suo soffio divennero una continua scoperta. Certo, sopravvivevo malamente alle “tavole dei nessi” che imperavano nell’istituzione che ancora recava il fregio Regio Ginnasio Liceo; ma, specialmente, rassicurando formalmente mio padre che mi raccomandava “Pietro, mettiti sotto”, stavo sempre un po’ sopra, sopra, a respirare e a farmi godere quel ciuscio, quel soffio di vita inesplorata.
Esso recava buone nuove e conteneva un mondo. Era lo stesso soffio, accennato o trasformato in vento insistente, che si poteva cogliere restando negli immediati dintorni, tra le case intorno ai laghi e i giardini di limoni verso Briga e l’intera riviera ionica.
Dopo un primo periodo di sbandamento, infatti, ne fui coinvolto, in vagabondaggi spacciati per passeggiate. Fossi solo o in compagnia, dovevo attraversare la città dentro quel soffio, e girarla in tutte le direzioni, salire a piedi ai forti o al castello dei giganti, passare nei borghi dei Saddei, dei Catalani o dei Veneziani, degli orafi e degli spadari, nel soffio continuo che la attraversava, assaporarlo in faccia  intriso di odor salso e di nepitella dei colli.
A un certo punto mi resi conto, o, meglio, sentii che quel soffio, quel ciuscio, non era sufficiente, con gli odori, i profumi, le spore, le essenze che portava attraversando lo Stretto. Piuttosto, avrei dovuto riempirlo  di qualcosa che ne confermasse la virtù, come l’oliva di sarmura in certi piatti, l’oliva che in collina spesso diveniva l’unico companatico, col pane caldo e il vino spillato. Io, dentro al ciuscio della città, scelsi la voce dei poeti a frequente companatico del soffio.
Aveva voglia un amico di mio padre, Filippo Gualtieri, che incrociavo sempre in via Dogali – dove alloggiava in una pensione, già casa chiusa, ospite vitalizio della titolare – a richiamarmi alla realtà con una tiritera d’origine catanese (“Pietro non tirare pietre etc. etc.”), vedendomi svagato e come sospinto da un niente.
Oggi parrebbe qualcosa di impensabile, straordinario,  eppure allora in periodi miti e tiepidi la città diventava una sorta di capitale cosmopolita della poesia; il Vann’Antò, all’apparenza  paludato premio ospite delle sedi universitarie, era tuttavia l’occasione del miracoloso passaggio del mite stato maggiore della poesia. Scoprii, poi, che ci erano passati parecchi dei poeti che avrei letto, e che lo stesso premio brillava in una virtuosa competizione con l’Etna-Taormina dove, più o meno un decennio prima, erano stati protagonisti Dylan Thomas e Vladimir Holan… Non avevo parole man mano che apprendevo, spinto dal soffio della città, la sorpresa di una comunità fondata sulla parola, su un ciuscio che si faceva musica.
Sedevo spesso, come altri ragazzi, alla base dei monumenti, in particolare in centro, sotto il Don Giovanni d’Austria, il Gran Bastardo di Carlo V, ad adocchiare di traverso i bronzi con le varie fasi della battaglia di Lepanto, dove le navi variavano di posizione come note musicali sullo spartito della Storia, ora fissata nel soffio dello Stretto.
Una sera, ancora chiara, – avevo in mano il Malte Laurids  Brigge, e centellinavo la lettura guardando la gente che passava davanti ai Catalani –  al monumento s’avvicinarono due signori, assai distinti, come avrebbe detto mio padre. Non mi era distinguibile la loro età: gli adulti sembravano tutti ad un’altezza indistinguibile e irraggiungibile.
Eppure i due signori avevano una conversazione che stava bene dentro il soffio della città, raggiungendo subito la mia fame di parola. Quello, apparentemente più anziano, stempiato, con la pipa, i baffi quasi a mostacci e le basette ottocentesche, narrava della statua, delle lastre bronzee relative all’antica battaglia e di ciò che era un tempo la città, all’altro, fascinoso, dal pallore nordico, con la barba e i lunghi capelli candidi.
Qualche sera dopo, non ricordo in quale aula dell’università, mi ritrovai ad assistere alla premiazione del Vann’Antò. Scoprii che in fondo il soffio della città era stato capace di fissarmi, per pochi attimi, le figure di Cattafi e Raboni.
Anni dopo, incontrando il poeta dalla barba candida, tramite un amico, al nord, non osai fargli menzione di quell’episodio, né di un ragazzo di sedici anni che leggeva Rilke sotto la memoria bronzea di Lepanto. Mi limitai solo a sentirlo evocare con emozione la presenza dell’amico siciliano. E ricordai solo, a me stesso, di averli seguiti con l’occhio, mentre si allontanavano verso il Duomo, contro il soffio che veniva giù dai colli.
Era lo stesso soffio che poteva spingermi a chiedermi cosa ci fosse oltre la stazione marittima e al di là della falce del porto. E questo fu il guaio, come dovetti poi ammettere, portato, dall’inganno del soffio, a ritrovarmi a vivere poi in tutt’altre contrade.


Il volto (di Mario Domina)

(dal blog letterario di Mario Domina, “Lettere di Diogene”)

Son qui alla stazione di Messina, solita puzza che proviene dai marciapiedi luridi, cicche e sputazza per terra, piscio negli angoli, ma non importa, perché gli odori si mescolano con quella sensazione indefinita che arriva da lontano, dalle mille volte che fin da bambino son passato di qui, un caleidoscopio sentimentale pressoché incatalogabile, migliaia di volti, di passaggi, di fischi dei treni, lo sbattere assordante degli sportelli, dentro e fuori, monta e smonta dal treno, smonta e rimonta il treno, dentro e fuori dal ferrubottu, su e giù dai binari di Villa, che per capire come funzionavano ci ho messo anni, e poi la madonnina dal traghetto, dai saluta! fatti il segno della croce e lancia un bacio, inspira l’aria fresca del mattino sullo stretto, dietro Scilla davanti Cariddi, o viceversa, ma in quel caso era più triste – ci fu anche quella volta che mi appesi al collo un cartello con su scritto “No-ponte! se lo fanno, tutta questa bellezza verrà distrutta”, e raccolsi persino dei sorrisi assonnati… Però ora sono alla stazione, e non devo divagare troppo, sennò perdo il treno.
Lo hanno annunciato in questo preciso istante, il regionale che da Messina mi porterà al mio paese sui Nebrodi, e dopo l’aereo l’autobus la nave e il tram – ora che sono più moderno, e non mi sparo più diciotto-ore-diciotto di espresso – l’ennesimo trasbordo nella calura agostana sta cominciando a fiaccarmi. Sarà più moderno, ma io non son più bambino. Sono però felice per il mio arrivo, per il mare, per il sole, per l’aria, i profumi – che sopraggiungono lo stesso, nonostante il puzzo nauseabondo della stazione.
Mentre mi accingo a salire vengo avvicinato da una donna straniera, dai tratti sembrerebbe asiatica, forse indiana o pachistana, sulla cinquantina, che mi chiede un’informazione circa la destinazione del treno. Io le rispondo con cortesia, come al solito, ma poi capisco che non le basta, che vuole qualcos’altro da me. In verità sono un po’ infastidito, avrei voluto godermi in perfetta solitudine il momento dell’approdo, dell’arrivo, del contatto con la mia terra. Mia, solo mia, qui e ora, io e lei, e nessun altro. Sono molto geloso quando celebro i miei riti, e divento un asociale scontroso e irritabile se qualcuno li intralcia. Come questa donna che continua a fissarmi con i suoi occhi scuri e puntuti, seppur con l’aria timida e discreta di chi intuisce che intorno al suo interlocutore si va formando un cerchio impenetrabile.
E forse c’è anche dell’altro che non sto a indagare, magari quella melma fastidiosa che ribolle nel nostro basso ventre quando si è avvicinati da un estraneo, per di più così tanto estraneo. Scorza razionale del “siamo tutti uguali, mica son razzista io”, e poi polpa di tutt’altro tipo, fatta di passioni e paure incontrollabili, che discendono da cunicoli e labirinti ancestrali sepolti in quella zona del cervello che abbiamo denominato “amigdala” – mandorla grigia e misteriosa.
Alla fine lei capisce che non intendo molto starla a sentire e, pur seguendomi nello stesso vagone, si siede nell’altra fila di posti a sedere. Si presenta in modo dignitoso, pulita e ordinata, e veste degli abiti piuttosto dozzinali, tutt’altro che esotici – ad eccezione di un foulard dai colori sgargianti, che rompe la monotonia del vestito, e soprattutto quell’aria malinconica che non è solo stampata sulla sua faccia, ma che sembra essersi propagata nei gesti e in tutta la sua figura.Occhieggio di tanto in tanto incrociando il suo sguardo smarrito, e decido che è venuto il momento di ascoltare della musica, per isolarmi ancora di più e concentrarmi sul paesaggio.
Dopo la lunga galleria che passa sotto i Peloritani, s’intravvede finalmente il triangolo azzurro del mar Tirreno, e il mio cuore ha un sobbalzo: poco più in là compare Punta Milazzo, e s’indovinano le Eolie, cancellate in parte dallo scirocco di ferragosto. Attraversiamo un ponte altissimo, e mi sovviene l’immagine di me e dei miei cugini che da bambini correvamo nel greto secco del torrente che passa lì sotto, quand’ero ospite di una zia grassissima e adorata che abitava poco più in alto, risalendo la valle. Poi il treno si ferma alla stazione di Villafranca Tirrena, e sembra non voler ripartire più, la prima delle numerose ed eterne coincidenze capaci di fiaccare anche il più paziente e mite degli umani. Sbuffo e di nuovo incrocio il sorriso tenue e impacciato della donna.
Dopo qualche altro sguardo fugace, alla fine decido che la mia dorata solitudine protosicula può anche andare al diavolo, e a maggior ragione l’eventuale irrazionale e ancestrale diffidenza. La invito a sedersi di fronte a me e cominciamo a parlare. Poche parole, in verità, visto che lei conosce pochissimo l’italiano, lingua smozzicata e stentata, ma che va dritta al cervello e al cuore, perché esce da una bocca che ha un intero mondo da raccontare – se solo potesse esprimerlo. Ma al di là della storia frammentata che le mie orecchie ascoltano (la solita litania di sfruttamenti, profittatori, bastardi che promettono, illudono e nè mantengono né pagano, naturalmente italianissimi), sono il suo volto e i suoi gesti che mi colpiscono profondamente. Il suo sguardo impaurito e implorante, le mani insicure, quel fremere di tutto il corpo, le sue lacrime discrete. Stava andando, qualche stazione dopo la mia, a trovare un amico – un “paesano” – che forse avrebbe potuto lenire la sua sofferenza e la sua disperazione. O magari si sarebbe rivelato l’ennesimo bastardo profittatore. Realizzo che quella donna e quel volto sono disperatamente soli, persi nel nulla, e invocano aiuto. Un vero e proprio grido altissimo e però soffocato nel mezzo del deserto.
Poi, rinfrancatasi un momento, su mia sollecitazione comincia a raccontarmi della sua famiglia in India, dei suoi figli più che ventenni, del villaggio, di quanto le manchino. Anche qui, poche frasi smozzicate, e i suoi occhi e la sua bocca che cercano di tendersi in un sorriso, senza molta convinzione. Ma io riesco a vederlo quel villaggio, e le donne colorate che vanno a prendere l’acqua a chilometri di distanza, e i figli che si svegliano presto al mattino per cercare di combinare qualcosa, e il marito ammalato, e i vecchi che scuotono la testa silenziosi, e la grande città verso cui i ragazzi, prima o poi, partiranno, e lei qui, a migliaia di chilometri di distanza, che stringe nel cerchio della sua testa tutto quel mondo, e lo sta sciorinando tristemente davanti a me.
È volata un’ora, e il treno, nell’ultimo tratto, sembra essere impazzito e voler recuperare il tempo perduto, dopo tutte quelle coincidenze e le fermate in stazioni che sembravano abbandonate da tempo immemore. Fischia, e talvolta persino urla, all’ingresso delle vecchie gallerie, che si susseguono dopo la montagna del Tindari, e io alterno la visione del volto della povera donna indiana di fronte a me con quella delle calette laggiù alla mia destra, dove spero di gettarmi tra poco per lavar via tutta la malinconia – quella vaporosa di un intero anno, e quella intensissima di quest’ora, un’ora che si depositerà da qualche parte, non molto discosta dalla mandorla terrorizzata, e che resterà lì in eterno, come un diamante intangibile.
Mi preparo a scendere, è arrivata la mia stazione, intravvedo dal vetro la solita palma che contende lo spazio al ficus cresciuto nell’ultimo anno ad un ritmo più veloce, entrambi costretti nelle aiuole lungo il marciapiede, con il sole impietoso della tarda mattina che comincia a bruciare ogni cosa, e che non smetterà di farlo fino al tramonto, fino a che tutto non sarà estenuato e morto di sete e di febbrili allucinazioni. Chissà se è lo stesso sole che picchia laggiù, nel suo paese indiano. Guardo lei e guardo la porta d’uscita che occorre quasi forzare per poter scendere, la saluto con tutto il calore che mi è possibile per le circostanze, augurandole buona fortuna. Lei mi lancia per l’ultima volta quell’occhiata riconoscente, che mi si conficca nelle carni, come una stilettata – a futuro memento. Non mi giro una volta a terra, per non dare impressioni sbagliate, o forse perché non voglio far vedere gli occhi lucidi, anche se non c’è pericolo, visto che ho subito inforcato gli occhiali scuri, dopotutto sono in vacanza, ma so che il suo volto e i suoi occhi ardenti sono ancora fissi sulla mia schiena, e che non si staccheranno più da lì.

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[Nota dell’autore – Raccontai questo episodio, esattamente 5 anni fa, sul mio blog filosofico La Botte di Diogene, in maniera più succinta e con qualche considerazione a latere sul concetto di volto in Levinas, sulla memoria e sull’oblio]

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Per notizie sull’autore di questa prosa, vi consigliamo di cliccare sul suo blog filosofico La Botte di Diogene: http://mariodomina.wordpress.com/questo-blog/note-sullautore/


Capo Peloro, lo Stretto, Orione e Nettuno (di Marcello Mento)


La mareggiata che la primavera scorsa ha eroso una fetta consistente di spiaggia da Punta Faro, disvelando nel contempo una parte del basamento cinquecentesco del Fortino degli Inglesi, ha colpito molto i messinesi. Curiosità mista ad apprensione sui volti di quanti, in una sorta di pellegrinaggio, continuano a recarsi sul posto per vedere da vicino l’entità delle modifiche apportate dai marosi. A dimostrazione del profondo legame esistente tra Capo Peloro e i messinesi (non fosse altro che per motivi balneari). Un legame che affonda le sue radici in un passato mitico affollato da ninfe, divinità marine, mostri e giganti di cui hanno prlato molti scrittori antichi: Omero, Orfeo, Virgilio, Tibullo, Giovenale, Aristotele. E che ha a che fare direttamente con la fondazione sia della Sicilia che di Messina, non a caso chiamata la città del Peloro e Peloritani o Nettunii i monti che la sovrastano.
«A Capo Peloro, nella Cariddi horcyniana – scrive Nicola Aricò nel suo bellissimo “Illimite Peloro”, edito da Mesogea – noi possiamo sicuramente affermare “qui origina Sicilia”. Non so quante isole al mondo – osserva l’autore – possano identificare un loro lembo di terra dove riconoscere l’origine». E questo perché è nel momento in cui Poseidone/Nettuno crea la frattura con la Terra Ferma che prende vita l’Isola, la Sicilia. E con essa Capo Peloro, lo Stretto e la falce attorno alla quale sorgerà Messina. Ed è anche il momento in cui gli amanti Peloro e Scilla verranno strappati al loro voluttuoso abbraccio, condannandoli «per sempre alla vicina lontananza». «Il fremere del duemari (ovvero i due mari, che nel lessico mitico di Stefano D’Arrigo si singolarizzano, anche sul piano morfologico, in una sola entità) – scrive Aricò – avrebbe ripetuto in eterno lo strazio di quella separazione violenta così come il liquido marino, da millenni, ogni sei ore, continua a onorare il patto di scambio tra i due mari, il loro accordo, l’impegno alterno di armonizzare a sé l’avversario». Tutto questo darà vita, scrive a sua volta Anna Maria Prestianni Giallombardo, docente di Storia greca all’Università di Messina, ad un «comprensorio terracqueo che racchiude realtà estremamente e rapidamente mutevoli, dove appunto domina ciò che è “straordinario”, “gigantesco”, “terribile” e comunque “fuori dal comune”, il pelorios, appunto». Troviamo questo aggettivo associato ad Ares, Eracle, Achille o a giganti quali Orione, sul quale torneremo più avanti, ma anche a mostri marini che nella tradizione hanno proprio nell’area dello Stretto la loro sede, come la terribile Scilla.
E Peloris è il nome più antico del capo o promontorio dove Occidente e Oriente si incontrano e si scontrano. Così come Pelorias è la divinità protettrice di questo territorio, le cui fattezze ed il nome ci sono restituiti da monete di Messana, del V secolo a.C.. Mentre Pelorus, diffusosi durante le guerre puniche, fa riferimento alla leggenda secondo la quale il toponimo deriva dal nome del timoniere di Annibale, Pelorios, ucciso dallo stesso condottiero convinto che lo Stretto fosse un golfo senza uscita. Compreso l’errore Annibale fece tumulare il timoniere sul promontorio «che da lui prenderà nome ed onorato con uno mnema posto al Peloro, quale monito e guida per i naviganti».
«Peloro – scrive Aricò – è un illimite. Né finis terre, né incipit. Luogo di incontro o di scontro, seduzione e morte; Etruria e Ionia, con i loro mari, vi confliggono incessantemente, solidali ispiratori del mito di Scilla e Cariddi».
Ed è a questo punto che subentra la figura del gigante Orione, a cui la tradizione omerica riserva l’epiteto pelorios. È Orione, secondo Diodoro Siculo, che costruisce per il re Zancle il porto della città, forma il promontorio Peloro e vi innalza un tempio al dio del mare Poseidone, suo padre. Dopodiché tornò in Eubea e vi si stabilì. Per la sua fama fu annoverato tra le stelle del cielo e ottenne un ricordo immortale. A dimostrazione, come scriveva Diodoro, ricordando Esiodo, che Orione come mito venne dall’Eubea insieme ai fondatori di Zancle, quei Periere e Cratemene, esti della nostra città.
Tutto questo ci porta inevitabilmente a parlare del grande Giovan Angelo Montorsoli, che forte della lezione di Francesco Maurolico, realizza le fontane di Orione e del Nettuno. In quest’ordine. Il primo è colui che concilia quei mari tra loro estranei e quelle terre tranciate. Ma è il padre Nettuno a mantenere il governo talassocratico. «Nell’opera montorsoliana messinese – scrive ancora Aricò – dalla fonte di Orione al Nettuno è dunque anamnesi, è ricerca erudita che appaga l’istanza rinascimentale rivolta al paganesimo classicista».
A proposito poi del toponimo Faro, con il quale il Peloro è anche conosciuto, c’è da dire che sin dall’inizio lo strumento di segnalazione indicò anche il luogo geografico. È così con Sesto Pompeo, mentre Goffredo Malaterra, nel 1061, con Faro identifica anche lo Stretto.


SACRO (di Gianluca D’Andrea)

Un testo inedito di Gianluca D’Andrea, una delle voci più autentiche ed originali del panorama poetico contemporaneo.

SACRO

Nothing that is not there and the nothing that is.
W. Stevens

I

La sera al ritorno a casa
il fatto che tu possa realizzare la sorpresa
di esserci nel trasporto dei nostri desideri.
Fuori un cielo di terra e il vento
che scuote di continuo le piante sul terrazzo,
il tuo viso, accarezzandoti,
stringerci e dire le nostre parole,
l’estremo privilegio di amarci come gli uomini fanno.
Sulle nostre dita, in nostra figlia
il rito esorcizza la scomparsa,
anche qui tra i mobili, i libri,
andiamo a restringere i nostri bisogni
e un bagliore riempie i vuoti.
Le tue contrazioni,
il fumo di una sigaretta alla finestra
mentre altre luci preparano vite vicine,
a qualche metro il vento
trasporta particelle al resto cresciuto nel nulla.
Le nostre salive si mescolano
confermando il legame, la promessa,
tutto il senso del mondo nel gesto
che ci accomuna nella distanza
e in questo istante ci avvicina.

II

Notte, l’aria ferma delle cinque
è una bacheca e il lampione
dalla finestra della cucina esegue
le sue intermittenze.
Manuela ha ripreso sonno
proprio ora che il mattino si fa spazio
e un primo chiarore scompensa il buio precedente.
Sto sospeso nei miei pensieri e malesseri
ora che la vita è accennata
ed accenna a restare.

III

Poi anche la vita si risveglia
in movimenti definitivi,
il gatto nero nel giardino insegue i piccioni
che tubano e svolazzano fuori dai nidi.
Una ragazza e un cane salgono le scale
e più distante il cinguettio dei passerotti.
Maggio in questo scorcio si colora di fiori,
ancora, al passaggio della prima automobile,
la luce è più alta, i lampioni ancora accesi,
nessun confine anche se la soglia
della finestra mi incornicia in una dimora.
Il mondo sopravviene
muovendo il suo circuito di relazioni
e disposizioni infinite.

IV

Pioveva il giorno della tua nascita,
riuscivo ad osservare poche luci
gli stop dei motorini,
il tragitto da una parte all’altra della città
tra i lampioni e la pioggia di terra.
Il quattro giugno duemilaundici
ti ho vista per la prima volta separata da chi mi accompagna
e ho visto te respirare nel dolore
la nuovissima aria, sconosciuta,
il tuo primo trasloco.
Ho ricordato la mia solitudine
nel momento in cui senza protezione
ti lanci nella vita che ti accade.
Piccola estranea, fibra che si estende
lontano
dal nostro incontro,
adesso ti tocco per conoscere i confini
e rispettare le tue soglie.

A Sofia

V – DALLA SOGLIA

La ricerca fuori dalla gioia,
ricordi quando discutemmo la protezione?
non è il potere ad inoltrare quei gesti,
la debolezza dei corpi a sfregiare l’anima
di ogni uomo, la paura che chiede gli occhi
e le mani negli attraversamenti del dolore.
Si aprono le membrane della ferita a un lascito –
testimonianza di questi giorni insieme,
tutti i nostri giorni sono insieme
nelle ultime curve di un paesaggio di sole
in cui si espande il mare che devasta lo sguardo;
in quell’istante le dimensioni si assottigliano
e le violenze e l’ottusità sono riassorbite
in altri spazi.
Reminiscenze e residui intagliano
parti microscopiche di mondo
e l’elastico del mare rientra
nelle mani sul volante.
L’attenzione alle curve
perché le spine non entrino dai finestrini
a ferirti. Mi fermo
affinché nessuna forza ti escluda
dal contatto esiziale e germinante di ogni dolore.