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“La città mi ha insegnato infinite paure / una folla una strada mi han fatto tremare / un pensiero talvolta – spiato su un viso”. Citare Pavese, come facevo un tempo, credo fosse assolutamente improprio, circa la mia esperienza della città, di una città in particolare. Eppure ci fu un tempo in cui credevo che quei versi rispecchiassero gli anni del mio arrivo.
L’avevo immaginata, dall’alto del Bastione del santo anacoreta (la piazza principale del paese dell’infanzia), come lo specchio luminoso dello Stretto, una Cariddi pacificata e quieta, illuminata da una vivacità gaudente e gentile. In effetti la città, la sua gente, tutto appariva confermare tale mia aspettativa; eppure, i versi di Pavese imponevano un lato d’ombra alla luce in cui vivevamo, o ne sorgevano irrimediabilmente; o, ancora, più verosimilmente, con quel “la città mi ha insegnato” ponevano al centro del mio sguardo la città e quanto essa avesse da dirmi. La città aveva tanto da dire a ciascuno di noi, e la sua essenza vera era nel ciuscio che vi circolava, non in una comune brezza, ma in un continuo soffio, da organismo dotato di respiro vitale, dai due mari, dalle due terre, dalle colline e dalle erte, dai valloni e dai dirupi, dalle armacìe e dai sentieri, un soffio che la pervadeva tra le vie squadrate e larghe, figlie del lontano sisma, e che la animava rinfrescando o sferzando i volti secondo la stagione.
L’avevo intravista, la città, superato il capo di Alì, per la prima volta dall’alto del camion OM con cui traslocavamo e non dal fondo della berlina di mio padre; sullo sfondo del paesaggio – ora aperto al mondo, ora ristretto ad abbraccio – tutto lasciava immaginare che ci fosse un ulteriore paesaggio aperto alla visione; in effetti, volevo sempre vederci dell’altro, in un luogo, oltre il luogo.
Una volta ambientatomi, la città e il suo soffio divennero una continua scoperta. Certo, sopravvivevo malamente alle “tavole dei nessi” che imperavano nell’istituzione che ancora recava il fregio Regio Ginnasio Liceo; ma, specialmente, rassicurando formalmente mio padre che mi raccomandava “Pietro, mettiti sotto”, stavo sempre un po’ sopra, sopra, a respirare e a farmi godere quel ciuscio, quel soffio di vita inesplorata.
Esso recava buone nuove e conteneva un mondo. Era lo stesso soffio, accennato o trasformato in vento insistente, che si poteva cogliere restando negli immediati dintorni, tra le case intorno ai laghi e i giardini di limoni verso Briga e l’intera riviera ionica.
Dopo un primo periodo di sbandamento, infatti, ne fui coinvolto, in vagabondaggi spacciati per passeggiate. Fossi solo o in compagnia, dovevo attraversare la città dentro quel soffio, e girarla in tutte le direzioni, salire a piedi ai forti o al castello dei giganti, passare nei borghi dei Saddei, dei Catalani o dei Veneziani, degli orafi e degli spadari, nel soffio continuo che la attraversava, assaporarlo in faccia intriso di odor salso e di nepitella dei colli.
A un certo punto mi resi conto, o, meglio, sentii che quel soffio, quel ciuscio, non era sufficiente, con gli odori, i profumi, le spore, le essenze che portava attraversando lo Stretto. Piuttosto, avrei dovuto riempirlo di qualcosa che ne confermasse la virtù, come l’oliva di sarmura in certi piatti, l’oliva che in collina spesso diveniva l’unico companatico, col pane caldo e il vino spillato. Io, dentro al ciuscio della città, scelsi la voce dei poeti a frequente companatico del soffio.
Aveva voglia un amico di mio padre, Filippo Gualtieri, che incrociavo sempre in via Dogali – dove alloggiava in una pensione, già casa chiusa, ospite vitalizio della titolare – a richiamarmi alla realtà con una tiritera d’origine catanese (“Pietro non tirare pietre etc. etc.”), vedendomi svagato e come sospinto da un niente.
Oggi parrebbe qualcosa di impensabile, straordinario, eppure allora in periodi miti e tiepidi la città diventava una sorta di capitale cosmopolita della poesia; il Vann’Antò, all’apparenza paludato premio ospite delle sedi universitarie, era tuttavia l’occasione del miracoloso passaggio del mite stato maggiore della poesia. Scoprii, poi, che ci erano passati parecchi dei poeti che avrei letto, e che lo stesso premio brillava in una virtuosa competizione con l’Etna-Taormina dove, più o meno un decennio prima, erano stati protagonisti Dylan Thomas e Vladimir Holan… Non avevo parole man mano che apprendevo, spinto dal soffio della città, la sorpresa di una comunità fondata sulla parola, su un ciuscio che si faceva musica.
Sedevo spesso, come altri ragazzi, alla base dei monumenti, in particolare in centro, sotto il Don Giovanni d’Austria, il Gran Bastardo di Carlo V, ad adocchiare di traverso i bronzi con le varie fasi della battaglia di Lepanto, dove le navi variavano di posizione come note musicali sullo spartito della Storia, ora fissata nel soffio dello Stretto.
Una sera, ancora chiara, – avevo in mano il Malte Laurids Brigge, e centellinavo la lettura guardando la gente che passava davanti ai Catalani – al monumento s’avvicinarono due signori, assai distinti, come avrebbe detto mio padre. Non mi era distinguibile la loro età: gli adulti sembravano tutti ad un’altezza indistinguibile e irraggiungibile.
Eppure i due signori avevano una conversazione che stava bene dentro il soffio della città, raggiungendo subito la mia fame di parola. Quello, apparentemente più anziano, stempiato, con la pipa, i baffi quasi a mostacci e le basette ottocentesche, narrava della statua, delle lastre bronzee relative all’antica battaglia e di ciò che era un tempo la città, all’altro, fascinoso, dal pallore nordico, con la barba e i lunghi capelli candidi.
Qualche sera dopo, non ricordo in quale aula dell’università, mi ritrovai ad assistere alla premiazione del Vann’Antò. Scoprii che in fondo il soffio della città era stato capace di fissarmi, per pochi attimi, le figure di Cattafi e Raboni.
Anni dopo, incontrando il poeta dalla barba candida, tramite un amico, al nord, non osai fargli menzione di quell’episodio, né di un ragazzo di sedici anni che leggeva Rilke sotto la memoria bronzea di Lepanto. Mi limitai solo a sentirlo evocare con emozione la presenza dell’amico siciliano. E ricordai solo, a me stesso, di averli seguiti con l’occhio, mentre si allontanavano verso il Duomo, contro il soffio che veniva giù dai colli.
Era lo stesso soffio che poteva spingermi a chiedermi cosa ci fosse oltre la stazione marittima e al di là della falce del porto. E questo fu il guaio, come dovetti poi ammettere, portato, dall’inganno del soffio, a ritrovarmi a vivere poi in tutt’altre contrade.
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